Il processo di “spersonalizzazione” nell’istituto avveniva dal primo momento. All’ingresso il “malato” veniva privato dei propri indumenti e degli oggetti personali. Tutti uguali come sagome, tutti ugualmente malati, tutti soggetti alle stesse cure. Paranoia, malinconia, traumi post-guerra, sofferenze amorose, fobie, epilessia, alcolismo, vivacità, idiozia, demenza, omosessualità, povertà: tutto ciò che la Società non era pronta a “capire” veniva riconosciuta “patologia” dalla psichiatria dell’epoca. Poco importavano le origini del problema, unica soluzione: isolarlo e placarlo. La struttura era come un grande contenitore dove la società vi abbandonava senza rancore, ma anche senza amarezza e senza speranze, tutti quei disgraziati che con le loro stranezze compromettevano la quiete pubblica. L’internamento era l’unica soluzione per tutti. I degenti venivano suddivisi in diverse categorie: sudici, tranquilli, semi-agitati, agitati e furiosi. La scarsa igiene e il sovraffollamento diventarono presto un grave problema.
Immagini crude e toccanti in grado di raccontare la storia di chi ha sofferto la reclusione e la tortura senza aver colpa, l’umiliazione e l’allontanamento dalla vita. È un luogo ricco di storia ma anche di realtà oscure e drammatiche, storie nascoste dietro le porte divelte e di lunghi corridoi avvolti nel buio dell’oblio, storie tatuate sui muri sporchi di lacrime e disperazione.
Nessuno può dirsi normale. Specie se messo in condizioni di non esserlo. Per questo, a tanti è toccata in sorte ‘una vita trascorsa senza vivere’.